All'interno della (piccola) galassia che oggi si chiama "Pittura Analitica", la figura di Gianfranco Zappettini e il suo lavoro sono tra le stelle più radicali. Per esemplificare la sua posizione radicale, questo artista ligure ha sempre criticato un certo tipo di "analiticità" sugellata, quella filtrata da un amore eccessivo per la bella pittura, anche quando si tratta di opere apparentemente da includere nella categoria dell'analiticità. D'altra parte, questo suo estremismo è stato rivolto anche contro se stesso quando, all'inizio degli anni '80, ha deciso di seguire altre vie espressive, prima ricorrendo a una figurazione quasi ironica, poi sperimentando altri campi della spiritualità, lontani dall'arte, per tornare infine all'arte e praticarla con nuova freschezza negli anni '90.
Questa breve prefazione critico-biografica è un'introduzione ad alcune riflessioni sull'uso della carta come supporto e, forse, anche sul suo utilizzo come strumento all'interno del suo lavoro. Se, in altre parole, nella sua radicale analiticità ci possa essere qualche ritorno concettuale all'uso di uno strumento così tradizionale, e così tradizionalmente usato da quasi tutti gli artisti. Infatti non si può dubitare che la carta - che è praticamente sinonimo di disegno - sia sempre stata il luogo principale per la sperimentazione delle idee, ed è proprio per questo che la carta - come il disegno - è un ambito privilegiato di collezionismo da parte di raffinati conoscitori, mentre la grande maggioranza degli appassionati la considera come il risultato di una forma "minore", una sorta di schizzo e, quindi, qualcosa di "non finito". Questo naturalmente accade a causa della modestia intrinseca della carta: è sempre pronta e in attesa di una matita per disegnarci sopra. La facilità di fare segni, la facilità di fare gesti, la facilità di usarla ha reso la carta uno strumento semplice, e le cose non sono cambiate, nemmeno in un'epoca di avanguardie e neo-avanguardie (con le solite poche eccezioni che, a volte, sembrano fare una sorta di "sfida" a se stesse e al sistema delle convenzioni dell'arte).
In questo contesto Zappettini usa la carta in modo apparentemente tradizionale: nella scelta delle opere su carta qui esposte, ad esempio, è possibile seguire tutta l'evoluzione dei suoi lavori dai primi anni Settanta ad oggi, e sono senza sorprese, almeno per chi conosce bene il suo lavoro. Si va dai lavori bianchi - il "bianco su bianco" che gli valse l'invito a Documenta nel 1977 - ai "gessetti su carta", lavori visibilmente più difficili, e poi via via fino alle opere "trama e ordito" caratteristiche di tutto il suo secondo periodo, che dura ormai da quasi un quarto di secolo. La visione ravvicinata che la carta, il disegno e, in generale, tutte le opere di piccola scala impongono, rivela piccoli segreti, come quelli relativi all'uso di una vera e propria trama di nylon che conferisce una pesantezza al supporto e, per così dire, "fa inciampare" il colore che poi si deposita insi-me alla trama, la supera, e deborda in modo quasi casuale per lasciare intravedere il colore che giace sotto di essa, generalmente rosso e blu. Un critico sensibile potrebbe anche parlare a lungo degli aspetti cromatici e grafici delle opere - soprattutto in quelle degli ultimi cinque o sei anni -, quelle che sfruttano il minimo ostacolo dello spessore della materia per ottenere il loro effetto di contrasto e di conflitto tra segni e colori; e senza dubbio Zappettini ha raggiunto una maestria, forse più evidente nelle opere su carta che nelle tele, che non si è ancora spostata da un uso tradizionale della carta, per quanto raffinato e acuto.
In questo modo le opere su carta di Zappettini corrispondono integralmente alle sue opere "maggiori": obbediscono agli stessi principi e mostrano la stessa intensità. Per lui la carta è uno strumento quasi indifferente, come indifferente è il suo uso della tela, perché ciò che conta davvero è il processo concettuale per il quale gli strumenti, il supporto, la padronanza, la qualità sono corollari dispensabili, tranne quando coincidono con l'idea. La carta, dunque, è lo strumento che si ha sotto le mani, il primo che si incontra, finché non si prende coscienza che proprio quel supporto permette di aggiungere qualcosa all'opera: e, nel caso dei fogli sovrapposti - come anche nella serie con carta fotografica - questi umili servitori si mostrano preziosi, indispensabili, unici.
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Inside the (small) galaxy that today is known as “Analytical Painting”, the figure of Gianfranco Zappettini and his work are among the most radical stars. For an example of his radical stance, this artist from Liguria has always criticised a certain kind of su- gar-coated “analyticity”, one filtered through an over-indulged love of fine painting, even when this is a question of works that are apparently to be included in the category of analyticity. On the other hand, this extremism of his was also aimed against himself when, at the beginning of the 1980s, he decided to follow other paths of expression, first by employing an almost ironical figuration, and then by trying out other fields of spiri- tuality, ones distant from art, in order at last to return to art and practice it with new freshness in the 1990s.
This brief critical-biographical foreword is an introduction to some thoughts about using paper as a support and, perhaps, also about its use as a tool within his work. If, in other words, in his radical analyticity there might be some conceptual return to the use of a tool that is so traditional, and used so traditionally by almost all artists. In fact it cannot be doubted that paper – which is practically synonymous with drawing – has always been the main place for trying out ideas, and it is for this very reason that paper – like drawing – is a favoured area for collecting by refined cognoscenti, while the great majority of enthusiasts think of it as the result of a “minor” form, a kind of sketch and, therefore, something “unfinished”. This of course happens because of paper’s inherent modesty: it is always ready and waiting for a pencil to draw on it. The ease of making marks, the ease of making gestures, and the ease in using it has made paper a simple tool, and things have not changed, not even in an age of avant-gardes and neo-avant-gardes (with the usual few exceptions who, at times, seem to be making a kind of “challenge” to themselves and to the system of art conventions).
In this context Zappettini uses paper in an apparently traditional way: in the choice of works on paper on show here, for example, it is possible to follow the whole evolution of his works from the early 1970s until today, and they are without any surprises, at least for those who know his work well. They range from white works – the “white on white” that earned him an invitation to Documenta in 1977 – to the “chalks on paper”, works that are visibly more difficult, and then on until the “warp and weft” works characteristic of all of his second period, one that has now lasted almost a quarter of a century. The close-up view that the paper, drawing and, in general, all the small-scale works impose, reveals small secrets, such as those about the use of a real nylon weft which gives a weightiness to the support and, so to say, “trips up” the colour that then lays down insi- de the weft, overcomes it, and overflows in an almost random way to allow a glimpse of the colour lying beneath it, generally red and blue. A critic with a sensitive disposition might even talk at length about the works’ chromatic and the more graphic aspects – above all in those of the last five or six years –, ones that exploit the minimum obstacle of the thickness of the material in order to achieve their effect of contrast and conflict between marks and colours; and without a doubt Zappettini has reached a mastery, one perhaps that is more evident in the works on paper than the canvases, that has not yet shifted from a traditional use of paper, however refined and acute.
In this way the works on paper by Zappettini correspond integrally to his “major” works: they obey the same principles and show the same intensity. For him paper is an almost indifferent tool, just as his use of canvas is indifferent, because what really counts is the conceptual process for which the tools, support, mastery, and quality are dispensable corollaries, except when they coincide with the idea. So paper, then, is the tool you have beneath your hands, the first you come across, until you become aware that that very support allows you to add something to the work: and, in the case of the superimposed sheets – as also with the series with photographic paper – these humble servants show themselves to be precious, indispensible, unique.